Caro Leo,
quell’inverno il termometro toccò i -17. S’indossavano due paia di calze dentro gli scarponi e guai a lasciare gli indumenti stesi fuori dalla finestra ad asciugare: li avresti ritirati rigidi come sassi.
Tu eri rimasto bloccato a Roma, dove replicavi il Cantico dei cantici. Al tuo ritorno a Bologna passai a salutarti. Vivevi in un residence non lontano dalla ferrovia; prima di trasferirti nel tuo appartamento di via Indipendenza, vicino alla stazione. Cercai di tessere una conversazione, un po’ imbarazzato; bisognava trovare la nota giusta, capire come sostenerla, e visto che si trattava di rompere il ghiaccio, iniziai dal freddo. Mi ascoltavi assorto, soddisfatto. Avrei sospettato una educata compiacenza, se non avessi svelato tu stesso il motivo del tuo interessamento. “Sei migliorato molto”, dicesti, riferendoti alla mia dizione. Era trascorso appena un mese da quando, generosamente, mi avevi accompagnato dal mio primo insegnante perorando la causa di un giovanissimo aspirante attore. I risultati parevano buoni.
Mi avevi dato appuntamento tra piazza Maggiore e via D’Azeglio. Eri apparso quasi scostando la nebbia calata tra i portici, proprio come un attore uscito dal sipario. Allora portavi i jeans negli stivaletti, fumavi sigari cubani, indossavi un lungo cappotto stile marinaio d’oltralpe e una graziosa cagnetta chihuahua si accompagnava ai tuoi passi. Quel giorno la tenevi stretta in una sciarpa: “Ha freddo” dicesti, prima che raggiungessimo Marco Cavicchioli nella scuola di teatro dove insegnava dizione, erano arrivati anche Gino Paccagnella e Francesca Mazza, già tuoi attori. Erano stati allievi di Marco ed ora lavoravano nella tua compagnia. Terminate le repliche dell’Amleto, stavate per preparare Re Lear, seconda messinscena della poderosa trilogia shakespeariana prodotta da Nuova Scena al teatro Testoni. La Tempesta avrebbe concluso il progetto, seguita da Novecento e Mille, bellissimo spettacolo sul secolo trascorso. Avevo la sensazione di essere stato segnato nell’amore per il teatro da un imprimatur di rigore. Quando venivo a vedere le prove al teatro Testoni, c’era un’atmosfera sacra intorno al tuo lavoro, impregnava le stesse mura dell’edificio, al punto che non l’avrei ritrovata al San Leonardo, se non limitatamente all’ingresso. In sala, al Testoni, trascorsi due anni, ti presentai un monologo di Jenet e poesie di Leopardi. Rimanesti felicemente impressionato. Non essendo previsto un aumento di organico della compagnia, a breve si sarebbe conclusa la tua collaborazione con Nuova Scena, mi consigliasti di studiare almeno un altro anno. Poi mi chiamasti al teatro Ateneo di Roma per la messinscena del Macbeth.
Eugenio Allegri, un altro tuo attore–insegnante, esperto di Commedia dell’arte, avrebbe ritenuto quello spettacolo una svolta nella tua poetica. Inizialmente la cifra registica prevedeva una messinscena da barboni. Via facendo, l’indicazione cambiò con notevole disorientamento dei neofiti, che appresero quanto siano importanti nel teatro, come nella vita, qualità atletiche quali forza, resistenza, duttilità. “Fino all’ultimo momento si può sempre cambiare, il talento di un attore presuppone questa capacità”, affermavi. Lo spettacolo approdò a una realizzazione da viandanti, essenza dell’eterna lotta tra bene e male, aperta all’evoluzione dell’angelo della morte. In ultima istanza, il semplicissimo spazio scenico si rifaceva a un cimitero: lampade votive a forma di candela ornavano un cerchio di pietre di tufo, mentre le cascate di luci del carissimo Maurizio Viani lasciavano piovere sangue. C’era un richiamo sottile a Goya e al sonno della ragione che genera mostri. Gli attori vagavano nello spazio desolato per cadere improvvisamente al suolo, mentre tu accompagnavi il loro sonno con il suono di un timpano. Quale nostalgia insorge nel ricordare cosa significasse seguire un’idea registica con tale attenzione, caparbietà, vigilanza intuitiva! Su tutto appresi il senso del rigore, un’austerità interpretativa che coniugava la bellezza spettacolare, senza indulgere a facilonerie visive, e il suono, la parola. Nel Macbeth prevedevi una vocalità naturale. Voci poco appoggiate e molto risonanti. Una linea divulgata, successivamente, in vari seminari aperti ai giovani, studenti, attori. Dopo Ha da passà ‘a nuttata la tua esigenza poetica si sarebbe volta a coniugare Shakespeare con Eduardo. Un’eco ci giunse così da lontano, dalla tua giovinezza eroica, come avresti avuto modo di dichiarare. Negli anni ’70 avevi già messo in scena King lacreme Lear napulitane. Nei tuoi seminari al primo Spazio della Memoria, quella sorta di capannone industriale dismesso alla periferia di Bologna, avresti rilanciato la necessità di un attore autore di sé: capace di trasformare una debolezza in punto di forza.
Ai giovani accorsi alle tue lezioni esprimevi perplessità relative a un mestiere difficilmente praticabile. Esuberanza d’offerta rispetto alla domanda e mancanza di ricambio generazionale erano elementi sufficienti per desistere dal praticarlo. Poi c’era l’arte, la folle necessità andava oltre. Pochi tra quei giovani avrebbero avuto concrete possibilità di essere assunti in una compagnia, compresa la tua. A loro avresti lasciato sperimentare modalità creative, perché il desiderio di esprimersi non fosse mortificato.
Ricordo una lapidaria considerazione fatta da Eduardo poco prima che abbandonasse questa vita: “Il teatro è gelo”. Noi viviamo avvolti in un caldo tremendo. Ora è passato tanto tempo da quando presi un treno per venire a studiare a Bologna. Da allora, c’è stata Cernobyl, la caduta del muro di Berlino, il finale rovesciamento cinese, tangentopoli, l’attentato alle due torri, è entrato in vigore l’euro e l’Italia è il paese che spende più soldi nell’acquisto di telefonini. Appena arrivai a Bologna, mi unii ad un gruppo di cinefili. Loro andarono a spalare la neve alla stazione quell’inverno. Eravamo tutti del Sud. Ero l’unico teatrante. Salvatore amava la stazione, gli piaceva osservare i treni che passano. Era riuscito sempre a divertirsi. Tornava tardi la notte, girava per le osterie, come facevi tu da giovane. Io mi sono divertito tantissimo percorrendo centocinquanta kilometri in bicicletta. Il mio è stato un viaggio diverso. Sarà per questo che dopo il tuo incidente ti ho sognato. Eravamo insieme in treno. Forse, non avevamo pagato il biglietto. Il capotreno è passato per un controllo. Siamo finiti nel corridoio. Dovevi stare poco bene, ti ho avvolto in una coperta adagiandoti a terra. Tu mi hai guardato, un attimo, e hai reclinato il capo. Nel tuo sguardo ho letto una terribile stanchezza. Chissà dove correva quel treno!
Anch’io, comunque, sono stato riportato dal treno della vita alla nostra Marigliano e con altri spettacoli ho ripreso a svolgere il filo del tuo radicamento con le mie capacità e le nuove condizioni date.
*Clemente Napolitano, «Oggi è "ancora più lacerante il suo silenzio"», in LA TERZA VITA DI LEO Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna, riproposti da Claudio Meldolesi con Angela Malfitano e Laura Mariani e da “cento testimoni”, Corazzano, Titivillus, 2010.